NOTTE ABLUZIONI BEVANDE CIBO - Copia - richardandisabelburton

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                                                                     NOTTE

Quando fa caldo, le donne orientali dormono nude sotto al lenzuolo.
Anche i greci e i romani dormivano svestiti e nell’Inghilterra medioevale
persino le donne più pudiche non vedevano nulla di sconveniente nel dormire
nude accanto ai loro mariti nudi. Il berretto e la camicia da notte sono invenzioni relativamente recenti. Di regola, gli orientali coprono con il lenzuolo o con la coperta
anche la testa. Questa pratica è senza dubbio igienica, perché in questo modo tutto il corpo è protetto dalle correnti d’aria. Gli Europei, però, faticano ad adottarla perché hanno l’impressione di soffocare. Un’altra usanza orientale eccellente, seguita in particolare dai selvaggi, è quella di abituare i bambini a dormire con la bocca chiusa. Da adulti, essi non russeranno e, per difendersi dalla febbre malarica, non avranno bisogno della ‘protezione di Outram’, il pezzo di mussola sopra alla bocca.

  I musulmani hanno delle idee curiose sulle posizioni assunte dal corpo durante il sonno. - E’ proprio dei Re giacere sul fianco sinistro, dei Saggi giacere su quello destro, dei Santi dormire supini e dei Diavoli dormire proni – dice un proverbio popolare. Molti non riescono a dormire se prima non si sono sottoposti all’impastamento dei muscoli e allo strofinamento della pelle, una pratica igienica salutare che si va diffondendo anche in Inghilterra.
  Samar è l’ombra della luna, la semioscurità delle notti in cui risplendono solo le stelle o l’oscurità totale del cielo senza luna né stelle. Perciò il proverbio “Non lo farò né all’ombra né al chiaro di luna” vuol dire “Non lo farò mai.” Un altro proverbio, che io considero molto salutare, dice: “Andare a letto presto la sera e alzarsi di buon mattino”.Molti barbari hanno l’abitudine di starsene seduti alla luce della luna o a quella del fuoco di campo fino a mezzanotte e oltre. Essi mettono in pratica la versione moderna del suddetto proverbio:
  Gli sceicchi delle tribù arabe trattano la maggior parte degli affari pubblici di notte.



 L’abluzione completa si rende necessaria soprattutto dopo l’emissione del seme, che avviene durante la copula o la polluzione notturna. L’acqua deve essere pura, non essere inferiore a una certa quantità e toccare ogni punto della pelle. Si comincia dal lato destro del corpo e si termina con il sinistro, anche se c’è chi preferisce immergersi interamente nell’acqua.
  La disposizione contenuta nel Corano per il wudhu, concisa e oscura come al solito, ha dato origine a molte dispute e domande casuistiche. Il testo (cap.V) dice: “O Veri Credenti, quando vi preparate a pregare, lavatevi (ugsul) la faccia e le mani fino al gomito; strofinate (mash) le mani e i piedi fino alle caviglie. Se siete impuri per aver giaciuto con una donna, lavatevi dappertutto.” Questo precetto deriva dal rito ebraico di purificazione e dalla cerimonia di abluzione. I primi Cristiani non agirono saggiamente nel non rendere obbligatorio il bagno. S. Paolo (Eb. XI, 22) dice: “Avviciniamoci con un cuore sincero… avendo i nostri cuori disseminati da una cattiva coscienza e i nostri corpi lavati con acqua pura.” Ma questo non è sufficiente. I Cristiani Orientali vivono in un clima nel quale la pulizia dovrebbe venire prima della devozione. Invece, si distinguono per la loro sporcizia e rappresentano una vista sgradevole in confronto ai Musulmani e specialmente agli Indù. La mancanza di istruzioni per lavarsi e la proibizione di bere alcolici sono due cose riprovevoli del codice morale cristiano.    
      
  Per quanto frequenti siano i bagni, i peli del corpo, osservati al microscopio, mostrano depositi di sporco. I peli delle ascelle dovrebbero essere strappati, anziché rasati, perché la loro ricrescita provoca prurito. All’inizio, lo strappo è doloroso, ma poi la pelle si abitua. La regione pubica deve essere rasata, anche se  è già stata applicata una crema depilatoria. Il pelo si può eliminare con l’attahfif. Il liban shami (incenso siriano) è una resina d’abete importata da Chio, che viene prima fatta sciogliere, poi raffreddata con la forma di un tampone, da passare sulla faccia e sul corpo. I peli vi aderiscono e vengono strappati alla radice (Burckhardt, 420). Non pochi Anglo-Indiani hanno adottato questo metodo.
  Nelle donne, il folto ‘velo di natura’ viene eliminato con creme depilatorie e con la vellicazione. Quando Bilkis, regina di Saba, sollevò il vestito e si scoprì le gambe (Corano XXVII), Salomone, suo promesso sposo, volle che prima si depilasse. Il preparato più comune, detto nurah, consiste in sette parti di calce viva e in tre parti di zarnik o arsenico giallo. Viene applicato nei locali dell’hammam sulla pelle sudata. Appena il pelo comincia a staccarsi, la sostanza deve essere lavata via, altrimenti brucia la pelle e la macchia. Gli altri peli del corpo (sa’rat, da non confondere con sa’rah, capello) vengono eliminati con una miscela di miele caldo e trementina a cui si dà la forma di un salsicciotto, da far rotolare sopra di essi fino a quando non vengono via. Purtroppo, una buona crema depilatoria è ancora un desideratum. I migliori profumieri di Parigi e di Londra non ne hanno da poter raccomandare e la ragione è molto semplice: è impossibile eliminare il pelo senza rovinare la pelle.     
   
  Quando Mohammed Alì Pascià il Grande cominciò a governare il Cairo, trovò la città ‘soffocata’ dallo sporco. Diede allora ordine che ogni padrone di casa tenesse perfettamente pulito il tratto di strada davanti all’edificio di sua proprietà, pena la confisca dell’abitazione. Dopo alcune condanne dimostrative, l’ordine venne rispettato da tutti. Il risultato fu che, da allora, il Cairo non ha mai conosciuto la peste. In questo momento io mi trovo a Tangeri e devo dire che vi sarebbe una grande necessità di avere un Mohammed Alì anche in questa città.  
  Gli orientali temono le correnti d’aria almeno quanto i Tedeschi, ma per un motivo più valido. Nei climi caldi, gli spifferi sono molto pericolosi.
  Sputare e soffiarsi il naso è considerato volgare nella buona società. Per quanto riguarda lo starnutire (al-‘atsah), la faccenda è complicata. Per la tradizione talmudica riguardante la morte da starnuto, vedi Lane (M.E. cap.VIII). Gli Indù credono che lo starnuto e lo sbadiglio siano causati dagli spiriti maligni e, per scacciarli, essi fanno schioccare il pollice e l’indice il più rumorosamente possibile. Gli arabi pagani considerano lo starnuto un cattivo presagio, che spesso ha posto fine ai loro viaggi. I musulmani credono che quando Allah diede ad Adamo l’anima ( la vita), l’argilla si trasformò nella sua carne e nelle sue ossa. Risvegliandosi alla vita, il primo uomo starnutì ed esclamò: “Al hamdu li-llah”, a cui Gabriele rispose: “Che Allah abbia misericordia di te, o Adamo!”

  Maometto, che amava starnutire perché questo atto aiuta il corpo a essere più leggero e i pori ad aprirsi, ma detestava gli sbadigli perché non salutari quanto uno sternuto. Per questo disse: “Se uno di voi sbadiglia e non si copre la bocca, vi entra dentro un diavolo.” Questa superstizione è ancora diffusa da Baghdad al Marocco.            
  Sed vitam faciunt balnea, vina, Venus! Per gli orientali, l’hammam è un lusso e una necessità allo stesso tempo. Gli uomini vi passano ore a parlare  di soldi, di donne e di prodezze amorose. Le donne vi passano mezze giornate a lamentarsi dell’eccessiva inclinazione dei propri mariti all’amore, che contrasta con la loro avversione, dettata dal pudore, per i rapporti carnali.
  Nell’hammam si vedono uomini battere le mani sopra agli arti ed ascoltare il suono che ne deriva. Alla base di questo atto c’è la credenza che la pelle pulita, con i pori liberati dal sudore e dal sebo, dà un suono diverso e più forte, caratteristico del pulimento e del lustra mento.
  In occasione di feste private e di picnic, uomini e donne affittano l’hammam per quasi tutta la giornata. In questa storia, il bagno appartiene al pubblico ed è un puro capriccio della sposa quello di immergersi in acqua con il marito. Le persone ‘rispettabili’ non lo fanno.  
 Per quanto riguarda la medicina popolare e le cure preventive, gli Arabi hanno alcuni versi, che ricordano i detti della scuola salernitana:

        Dopo il pasto di mezzogiorno riposa, anche solo per pochi minuti,
        Dopo il pasto della sera cammina, anche se fai solo pochi passi.
        Prima di andare a dormire devi mingere, anche se espelli solo poche gocce.

  In Inghilterra, il cordone ombelicale è oggetto di alcune superstizioni. Le persone dei ceti più bassi mettono sulla ferita un pezzo di stoffa bruciata al centro. Esse credono che l’orlo carbonizzato del tessuto faccia rimarginare il taglio. Per questo assicurano il panno al bambino con una fascia strettamente legata attorno al corpo, un’azione che serve anche a prevenire la pancia.
  In Oriente, vi sono molti riti per festeggiare la nascita di un bambino. In India, l’ostetrica tocca il cordone ombelicale con un oggetto che luccica, come una rupia o un pezzo d’argento, prima di tagliarlo. Quindi intasca la materia che brilla e senza la cui luce, secondo la finzione, ella non avrebbe potuto compiere l’operazione. Il coltello usato per tagliare il cordone ombelicale viene messo accanto alla puerpera per quaranta giorni. Durante questo periodo, ogni volta che il bambino fa il bagno o viene condotto fuori, il coltello deve essere portato insieme a lui. Quando torna a casa, il coltello deve essere rimesso al suo posto vicino alla madre. Nel quarantesimo giorno, il chilla, si raccoglie il kajal (nerofumo) che si è formato sulla lama e lo si applica sugli occhi del neonato. Poi, il coltello deve essere usato per tagliare la gola a un gallo o a una pecora (Herklots, cap.1, sec. 3). In Egitto, vi è un modo molto particolare di disporre del cordone ombelicale, ma Lane è troppo castigato per fornircene i dettagli.

  Il tabacco e il caffè sono in stretta relazione tra loro per gli effetti che producono sull’organismo. Il fumo deprime l’azione del cuore ed ha un effetto calmante e lenitivo. Il caffè, come l’alcool, agisce in senso opposto sulla circolazione, eccitando il sistema nervoso. Non pochi esperti consigliano ai fumatori abituali di bere un bicchiere di alcool diluito con acqua prima di andare a dormire. Gli ignoranti che si scagliano contro ‘lo sporco tabacco’ dovrebbero prendersi la briga di osservarne gli effetti su ampia scala, invece di basare le loro opinioni sulle conseguenze verificatesi in un piccolo bacino, com’è nel costume anglosassone. Essi scoprirebbero, ad esempio, che in Egitto, in India e in altre parti del mondo orientale la nicotina è usata non solo dagli uomini di ogni età e classe sociale, ma anche da donne e bambini. Lo studio di tutti questi individui modificherebbe i risultati ottenuti dall’osservazione di poche persone in patria. Ma il filantropo non vuole conoscere la verità, anzi si ritrae da essa, come avviene per l’oppio, populus vult decipi. L’unica cosa che gli importa è il suo ‘pallino’, la sua idea ossessiva e ostinata.     
L’acido viene somministrato come antidoto per le intossicazioni, mentre le spezie piccanti e i dolci accrescono l’effetto della canapa indiana, dell’oppio, del giusquiamo e della datura.
  I persiani hanno un sistema molto sgradevole per far passare l’ubriacatura. Appendono per i piedi la persona che deve smaltire la sbornia, come facevamo noi con gli annegati, poi gli riempiono la bocca di escrementi umani. Si può star sicuri che in poco tempo vomita.   
 
  La bibita fatta con il frutto del tamar al hind, termine da cui deriva il nostro tamarindo, è leggermente lassativa ed è molto bevuta nei mesi caldi. Con il frutto essiccato si fanno delle tortine, vendute nei bazar. Il viaggiatore non deve mai dormire sotto alla chioma di un albero di tamarindo per evitare l’insorgenza di brividi e attacchi di febbre. Nel Sind, mi capitò di farmi beffe di questa credenza, che consideravo un’assurdità locale. Passai la notte sotto a un dattero indiano e mi risvegliai con una bella febbre, che mi durò una settimana.     
  Quando si purgano, gli orientali fanno molta attenzione e scherniscono gli Europei per la loro mancanza di precauzioni. Non escono di casa fino a quando l’effetto del purgante non è terminato, evitano di fare il bagno, non bevono vino e stanno lontani dalle donne. Tutte attività che riprendono con rinnovato zelo subito dopo.
  Nella medicina araba, attabannug che letteralmente significa drogare con cannabis o giusquiamo, nella medicina araba equivale al nostro anestetico. In Oriente, queste droghe sono state usate per secoli in chirurgia, molto prima che l’etere e il cloroformio si diffondessero nell’Occidente civilizzato.   

  Come ci si può aspettare in una nazione di allevatori di cammelli, la cauterizzazione, usata come revulsivo, è un rimedio popolare presso i beduini. Dice un proverbio: ”ahiri-iddawa’ al-kaei” (La cauterizzazione è il non plus ultra del trattamento medico). E anche: ‘Il fuoco e la malattia non possono coabitare.’ Molti abitanti del deserto portano sul loro corpo gli orribili segni di questo eroico trattamento, il cui abuso porta spesso alla cancrena. Ma un altro proverbio (Burckhardt, Proverbi, N. 30) dice: ‘Se non vi è nient’altro che valga, ricorri a metodi drastici.’     
  L’attiriaq era una droga a base di melassa usata contro i morsi velenosi. Quella di Baghdad e dell’Irak è stata a lungo considerata la migliore. L’equivalente europeo, la melassa di Venezia (theriaca Andromachi), è un elettuario contenente molti elementi. Come controveleno, i beduini mangiano per quaranta giorni tre teste d’aglio dentro al burro chiarificato.        

  La capparis spinosa cresce nel deserto. I suoi rami, lunghi una spanna, vengono immersi in acqua di zemsen, poi venduti alla Mecca in grande quantità come stuzzicadenti. In India, gli stecchi si ricavano da diversi tipi di piante, come il dattero, l’achyrantes e il phyllanthus. Gli arabi considerano particolarmente efficace lo stuzzicadenti di ulivo, “la pianta che cresce sul monte Sinai” (Corano, XXIII, 20). Maometto usava solo questo, perché previene la carie dei denti e profuma la bocca. Lo troviamo nel Corano, al cap. XCV, I. L’estremità in basso del miswak deve essere tenuta fra l’anulare e il mignolo, il centro deve essere stretto fra l’indice e il medio, l’estremità in alto deve essere contro le labbra con il pollice. Tutti questi tipi di stuzzicadenti sono stati a lungo in vendita al Palazzo della Medicina di Piccadilly, vicino al Palazzo Egizio. Essi sono migliori dei nostri sporchi spazzolini da denti, anche se rendono più lunga l’operazione di pulizia. Permettono, infatti, di levare i frammenti di cibo da ogni dente, anziché dare solo una spazzolata generale. In alcune parti dell’Africa e dell’Asia gli uomini si portano appresso lo stuzzicadenti appeso al collo con uno spago.
  Fino a poco tempo fa, i pazzi venivano rinchiusi nei monasteri siriani, nella speranza che il santo patrono li guarisse. Questi poveretti facevano una vita terribile. Tutte le guide turistiche parlano del metodo di guarigione seguito al convento maronita Koshaya, vicino a Beirut. I monaci gettavano l’idiota o il folle  a testa avanti in una lugubre caverna, con una catena al collo. Dopo averlo legato alla parete, lo lasciavano ad attendere la visita di Sant’Antonio, che predilige questa caverna. Il paziente o guariva o moriva, ucciso dal freddo, dalla solitudine e dall’inedia.     
    
  Gli arabi descrivono due tipi di lebbra: la bahaq o baras, la lebbra comune o bianca e la judham, quella nera. Attribuiscono la causa di entrambe a una dieta sbagliata,  a base di pesce e di latte. Curano entrambe con dei tonici, in particolare con l’arsenico. I musulmani considerano la lebbra una malattia ‘della Sacra Scrittura’. Essa prevale infatti fra gli Israeliti che proprio per causa sua, come dice Manetho, furono espulsi dall’Egitto, perché contagiavano  la popolazione. Nel mondo cristiano medioevale era prevalente l’idea che il Salvatore fosse un lebbroso. Per questo motivo, la malattia era chiamata morbus sacer. I santi andavano a rendere omaggio ai sofferenti e il Papa Clemente III (1189 d.C.) si indirizzò a loro chiamandoli “dilectis filiisleprosis”. (vedi Farrar, Vita di Cristo). Sonnini, che aveva visitato il lebbrosario di Canea, sull’isola di Candia, parla di “una lussuria prepotente e disgustosa” causata dalla malattia, ma in Brasile, dove questa malattia immonda è tuttora esistente, non ne ho mai sentito parlare.   
  Dice il Corano (sura 5, versetto 6): “…se siete malati o in viaggio, o se uscite dalla latrina o avete avuto rapporti con donne e non trovate acqua, usate allora buona sabbia e passatevela sul volto e sulle mani”.
  Lavarsi con la sabbia è una pratica di pulizia molto diffusa nei climi caldi e asciutti, in uso già da prima di Maometto. Cedrenus parla di un battesimo con la sabbia, impartito a un viaggiatore morente nel deserto dell’Africa.    

  In Oriente la mano sinistra è considerata impura e usata per il lavaggio del corpo. E’ una grave offesa porgerla e nessun uomo la usa per mangiare o per accarezzarsi la barba. E’ probabile, inoltre, che in tutto l’Oriente musulmano non si trovi un solo mancino. In Brasile, invece, questa distinzione si applica all’altra mano. Qui, le persone all’antica non prenderebbero mai il tabacco con le dita della mano destra. Si dice che anche gli abitanti del Catai preferiscano la mano sinistra. “Il cuore, che è il sultano della nazione Corpo, ha il suo palazzo da questo lato.”
  Dopo aver urinato, i musulmani asciugano il pene con un pugno di terra o con un sasso, a volte con due o tre. Se devono tornare a pregare, eseguono il wudhu. Nel suo libro Viaggio nel Levante, Tournefort racconta un episodio divertente: a Costantinopoli, alcuni cristiani avevano cosparso di pepe le pietre che i musulmani usavano per asciugarsi il pene.
I musulmani aborrono la pratica insalubre e non igienica di usare la carta al posto dell’acqua. Proprio per questa obbrobriosa abitudine degli Europei di usare la carta igienica, gli abitanti dell’India li hanno soprannominati ‘latrine’. La maggior parte degli Anglo-Indiani, tuttavia, ha imparato a usare l’acqua.

  In Oriente, l’evacuazione mattutina è considerata il sine qua non della salute. Anche i vecchi Anglo-Indiani condividono questa opinione sul bari fajar, il nome storpiato dato alla liberazione che avviene di prima mattina. I nativi dell’India, sia indù che musulmani, sono abituati ad andare di corpo due volte al giorno, mattina e sera. Questo potrebbe forse in parte spiegare la loro mitezza e tolleranza, perché ‘c’est la constipation qui rend l’homme rigoreux’.
  Dall’ottobre 1831, anno dell’epidemia di colera, in poi, gli Inglesi sono un popolo molto diverso dai propri avi, che erano sempre costipati e che non si sedevano mai a tavola senza aver preso prima un lassativo. Il clistere, pressoché sconosciuto in Indostan, è usato quotidianamente dai barbari dell’Africa occidentale. Sonnini racconta che se una simile cura fosse stata prescritta in Egitto, al tempo dei Bey, sarebbe costata la vita al medico che l’avesse ordinata.



 Noi Europei beviamo dopo i pasti, gli Orientali bevono prima e i mezzi-Orientali, come i Russi, bevono prima e dopo. Si dice che i liquori bevuti a stomaco vuoto siano dannosi, ma è soltanto una questione di abitudine. I Russi accompagnano la vodka con il caviale e gli Orientali alternano al Arak con un’assalatah. Questa abitudine ha i suoi vantaggi perchè risveglia l’appetito e stimola la digestione. Inoltre, è economica e gli Orientali fanno molta attenzione a queste cose. Una mezza bottiglia ha lo stesso effetto di una intera. Sia il bhang che il kusumba, cioè l’oppio disciolto e filtrato attraverso un tampone di cotone, vengono bevuti prima del pasto principale. In questo modo, l’allegria è preprandiale, non postprandiale.
  Il succo di giuggiole è usato come bevanda. Questo frutto (unnab), simile a una piccola mela, è usato anche negli stufati.
La pianta conosciuta come rhamnus nabeca, zisiphum o spina Christi perché, secondo la leggenda, i suoi rami spinosi sarebbero serviti per la corona di spine. Sul mercato inglese questo frutto è chiamato Japonica cinese. L’infuso delle sue foglie è usato per lavare i morti.
  
  Nel capitolo II, versetto 219, il Corano dice: “Ti domanderanno ancora del vino e del maysir. Rispondi: ‘c’è peccato grave e ci sono vantaggi per gli uomini in ambe le cose: ma il peccato è più grande del vantaggio.”
  Sul bere, Maometto sembra essere giunto a una decisione lentamente e per gradi. La legge coranica attuale è meno severa di quella decisa dai Mullah. Le proibizioni, stabilite in periodi differenti e diverse per importanza e distinzione, sono state discusse da Al- Baidhawi nel suo commento al capitolo sopracitato. Egli dice che la prima rivelazione si trovava nel capitolo XVI, 67. Ma il passaggio non era tenuto nel debito conto, allora Omar e gli altri si rivolsero all’Apostolo. Ma poiché anche questo passò inosservato, la decisione finale trasforma il vino e il gioco in opere di Satana. Ma il musulmano non è mai a corto di scuse ed egli può bere lo champagne e il cognac, che erano sconosciuti al tempo di Maometto e che quindi non erano stati proibiti. La giustificazione al consumo di vino e di alcool sta nel loro uso terapeutico, la stessa usata da quelli di noi che storcono il naso con dispregio all’idea di bere per il piacere di farlo.        

  Gli orientali, che ignorano le formalità e le convenzioni della società occidentale, bevono con l’intento d’ubriacarsi. Quando sono pieni fino agli occhi, si dedicano a giochi e scherzi rozzi e il loro comportamento diventa violento. Quello che in persiano si chiama badmasti - le vin mauvais – si conclude con liti e spargimento di sangue. Per questo l’affermare che i patriarchi, i profeti e i santi bevevano vino è considerato irriverente.
  I musulmani sono d’accordo con gli astemi di casa nostra nel negare che, fatta eccezione per Noè, nelle Sacre Scritture siano menzionate sostanze inebrianti.
  C’è un’affascinante canzone di Abu Mijan, che Ockley ha tradotto dal tedesco:

       When the Death angel cometh mine eyes to close,
       Dig my grave ‘mid the vines on the hill’s fair side;
       For though deep in earth may my bones repose,
       The juice of the grape shall their food provide.
       Ah, bury me not in a barren land
       Or Death will appear to me dread and drear!
       While fearless I’ll wait what he hath in hand
       An the scent of the vineyard my spirit cheer.

(Quando l’angelo della morte verrà a chiudere i miei occhi per sempre,/ Scava la mia tomba fra le viti sul versante soleggiato della collina;/ Perché, per quanto le mie ossa riposino in profondità, / Il succo dell’uva provvederà a nutrirle. / Ah, non seppellirmi in una terra desolata/ Dove la morte mi apparirebbe spaventosa e orribile!/ Io attendo invece senza paura quello che mi riserverà/ Se ci sarà il profumo del vigneto a rallegrare il mio spirito.)
Il vecchio, splendido bevitore!

  Presso i popoli dell’Africa centrale, è raro trovare un capo che sia ancora sobrio dopo mezzogiorno. Gli inglesi, che sono famosi per le loro bevute, sono dei bambini al confronto di questi negri vigorosi. Nell’Unyamwezi, ho visto un marchingegno costituito da un pezzo di corteccia fissato alla testiera del letto con un angolo di venti gradi, sul quale scorreva il Pombe, la birra di Osiride, proveniente da un enorme contenitore posto in alto. Di questo popolo si potrebbe dire che comminxit lectum potus.
  In Oriente, i bevitori inveterati provavano un grande piacere a bere all’alba e l’indulgere a un frizzante bicchiere di vino la mattina era un’usanza molto cara anche ai Persiani, popolo dai gusti squisiti. Non era affatto insolito sentire uno di loro salutare un amico con l’augurio: “Possa la libagione mattutina riuscirti gradita!” Oggi, questa pratica è ristretta alle persone di abitudini dissolute e sregolate.   
  Gli arabi, come già facevano i greci e i latini, bevevano vino mescolato. Imru’ Al-qais, nel suo Mu’allaqat, dice: “Porta il vino ben mesciuto, dal color di zafferano. Allunghiamolo con acqua ed i calici innalziamo.” Per affrontare la gara a chi beve di più, ubriacandosi in modo piacevole, gli Orientali si cambiano d’abito e infilano un vestito dai colori sgargianti, fornito dal padrone di casa. Questi abiti sono di solito gialli, rossi e verdi, nelle diverse sfumature.               
  Nel 1848 risalivamo marciando la valle dell’Indo, al comando di Sir Charles Napier, per attaccare Nao Mall di Multan. La tabella di marcia del Sind Camel Corps, le nostre truppe cammellate, era di circa cinquanta chilometri al giorno. Per rispettare questa media, noi inducevamo gli animali in uno stato di ubriachezza quasi totale, con il bhang o canapa indiana. Il termine bhang deriva dall’antica parola copta nibanji, che indica una preparazione a base di canapa. Omero chiama questo preparato ‘nepenthe’, un  termine che Al-Qazuini spiega con ‘garden hemp’, cioè canapa coltivata in giardino, il qunnab al bustani. Altri, invece, fanno corrispondere questa parola al giusquiamo, che era molto adoperato nell’Europa medioevale.
  L’uso del bhang risale agli albori della civilizzazione, quando i piaceri sociali erano quelli forniti dalle sostanze inebrianti. Racconta Erodoto che, durante le cerimonie religiose, gli abitanti della Scizia facevano bruciare i semi e le foglie di questa pianta e si ubriacavano aspirandone il fumo. I Boscimani del Sud Africa seguono ancor oggi questa pratica, che sembra essere stata la prima forma conosciuta di fumo. Galeno racconta di forme di intossicazione dovute alla canapa. Nel tredicesimo secolo, gli Egiziani inventarono una serie di preparazioni che ritroviamo nelle Notti.
   L’odore del fiore dell’henna ricorda quello dello sperma maschile. Per questo è prediletto dalle donne, come lo è da noi la rosa tea. E’ anche stato trovato sulle unghie delle mummie egiziane. Si pensa che nella Grecia antica fosse conosciuto come kupros, che i Greci moderni chiamano kene o kena. Nel canto di Salomone (I, 14), questo arbusto che invade i vigneti è chiamato botrus cypri. Vicino a Bombay, esso cresce formando delle siepi il cui profumo si sente a distanza. In ebraico, il suo nome è copher, termine che l’A.V. traduce con ‘ un mazzo di fiori di henna’.   



 Gli Orientali hanno delle credenze superstiziose riguardo ai poteri del cibo. Ho conosciuto un uomo colto che non si sedeva mai a tavola senza un cerimonioso salam al proprio membro.
  Il cibo migliore è quello preparato in casa dalle donne senza procedure complicate, facilmente digeribile. Il saridah è costituito da pane sbriciolato, nel quale è stata fatta cuocere della carne. Una variante da questo piatto prevede l’aggiunta di uova e midollo.
  Riferendosi all’uso particolare che una persona fa del pollice, indice e medio della mano destra, Burckhardt cita questo proverbio: “Egli abbassa le dita come l’artiglio di una cornacchia e lo risolleva come lo zoccolo di un cammello”.
  La carne di cammello vecchio somiglia a quella del toro, quella di cammello giovane è eccellente, anche se gli Europei non la apprezzano perché, come quella del pesce raro, non ha un sapore familiare e immediatamente riconoscibile. L’avevo già fatto notare nel mio libro Primi Passi. In Europa circola la vecchia idea che il desiderio di vendetta degli Arabi sia accresciuto dal consumo della carne di questo animale vendicativo. Ma come spiegare allora la tendenza furiosa e frenetica alla  vendetta degli Indiani Nordamericani, che non hanno mai visto un cammello? La verità è che il perdono e la misericordia appartengono agli eletti, non ai miserabili che compongono il genere umano.

  Il kebab è carne di montone o di agnello tagliata a piccoli quadri, infilzata nello spiedo e cotta alla griglia. Questo è il modo di arrostire la carne nel vicino Oriente dove, come in Occidente, non si è appreso a cuocere la carne in modo da conservarne il sapore. Un procedimento che è invece ben noto ai gauchos argentini. Essi cuociono la carne all’asado, a fuoco vivo, mentre sta ancora fremendo e prima che le fibre si irrigidiscano. Se l’animale è giovane, la polpa è perfettamente tenera ed ha un sapore ‘carnoso’, che si perde con la conservazione.
Con un pezzo d’agnello arrosto, una casalinga egiziana o siriana riesce a preparare venti piatti diversi. Un cuoco britannico è molto più ripetitivo e lascia fare allo stomaco tutto il lavoro di digestione, invece di alleviarlo.     
  I ful al-har sono dei fagioli simili alla fava cavallina (vicia faba equina), che vengono lasciati per qualche tempo in immersione e poi bolliti; i ful mudammas sono dei fagioli non sgusciati, che vengono esposti al vapore e bolliti tutta la notte. Sono consumati soprattutto in Egitto, conditi con olio di lino.

  Narra la leggenda che, prima dei giorni del faraone (quello di Mosè), gli Egiziani si nutrivano di pistacchi, un alimento che li rendeva vivaci e arguti. Il tiranno, che aveva notato che i fagioli di cui si nutriva l’asino domestico lo rendevano molto più tonto di quello selvatico, che mangiava pistacchi, fece sradicare tutti i pistacchi e li fece sostituire con i fagioli. In breve tempo, la dieta a base di questo legume rese tutti i sudditi grevi, massicci e codardi, buoni solo per portare la soma.
  I beduini scherniscono i mangiatori di fagioli, anche se non disdegnano un tipo di cipolla che somiglia molto a un  legume. L’effetto principale di una dieta a base di fagioli è un aumento straordinario della flatulenza nello stomaco e nell’intestino. Un giorno sedevo nel quartiere greco del Cairo vestito da musulmano, quando vicino a me scoppiò il pandemonio. Un gruppo di ragazzi circondava due contadini, che stavano rientrando dai campi. Prima di partire per tornare a casa, uno dei due aveva detto all’altro: “Se porti tu le zappe, quando arriviamo io scorreggerò tante volte quanti sono stati i nostri passi.” E poiché il compagno aveva accettato di caricarsi le zappe, al momento di separarsi, al grido di: “Ecco qui il tuo bakshish!” egli emise una scarica di cinquanta scorregge, con grande divertimento dei ragazzi.    

  Ho notato che i galattofagi, i popoli che bevono latte, preferiscono il sapore acido del latte fermentato a quello dolce del latte fresco. In questo modo, essi scelgono che il processo di fermentazione si svolga all’esterno dei loro stomaci piuttosto che all’interno. A questo proposito, non ho mai visto un uomo, una donna o un bambino della Somalia bere una goccia di latte fresco. Non solo, ma si sono sempre fermamente opposti al fatto che lo usassimo noi, che lo facevamo scaldare per  metterlo nel caffè.
  Oggi è raro trovare del cibo colorato. Soltanto i cuochi persiani continuano la tradizione di macchiare il riso per il pulao, che noi chiamiamo pilaff, a causa della corruzione linguistica turca. A volte, esso ha i colori dell’arcobaleno: rosso, giallo e blu. In India, questa vivanda viene ricoperta con foglie d’oro e d’argento. In Europa, è rimasta solo l’usanza di dipingere le uova pasquali, che rappresenta una continuazione del rito di dipingere le uova comuni deposte nel periodo compreso fra la domenica di Pasqua  e quella di Pentecoste. Esse vengono colorate di rosso per ricordare il Sangue della Redenzione.
  I persiani amano fare uno scherzo grossolano. Incaricano il pasticciere di ricoprire di zucchero gli escrementi di pecore e capre, poi li offrono alle feste. Questi deliziosi confetti sono chiamati nukl-i-peskhil, dragées di sterco.   

  Lo shuraik è un dolce di forma oblunga della grandezza della mano di un uomo con due tagli nel senso della lunghezza e diversi tagli trasversali obliqui. È fatto di pasta lievitata, con una glassa di uova e sama, il burro chiarificato e aromatizzato al gusto di spezie, fra le quali cinnamomo, curcuma, artemisia, prugne mahalab e di semi aromatici (ribat al’ajin) di anice, di nigella absinthium (artemisia arborescens) e di kafurah (artemisia camphorata monspeliensis). Lo sburaik viene dato ai poveri in occasione di certe feste.
  Un innesto sopra a una pianta di mandorle rende dolce il nocciolo e ne rende il gusto particolarmente delicato. A Damasco l’albicocca essiccata con una mandorla al posto del nocciolo è un frutto prediletto. Le albicocche vengono preparate in diversi modi, specialmente come mare’s skin, (tild al-faras o kamar al-din), una pasta ripiegata in diversi strati, che somiglia esattamente all’articolo da cui prende il nome. Al momento di usarla, la si diluisce in acqua e la si consuma come condimento insieme al pane o ai biscotti.
  Le angurie (bataikh) tagliate a cubetti vengono servite insieme al riso e alla carne. Servono a rinfrescare il palato e a mantenere la bocca pulita.



 Il guardaroba degli orientali è limitato, ma adeguato alle fondamentali norme di decenza. A un viaggiatore che vivesse per anni con loro non capiterebbe mai di intravedere una nudità accidentale. Per essere in grado di indossare un indumento come il grembiule nubiano con i lacci, rispettando il comune senso del pudore, ci vuole una notevole capacità muscolare. E a proposito dello stile, conosciamo tutti la grande differenza che c’è fra il modo di portare il kilt di uno highlander e quello di uno sportivo di Londra.
Nelle occasioni pubbliche il musulmano dovrebbe essere abbigliato ‘in vestibus (quasi) nigris aut subfuscis’, alla maniera di uno studente medioevale. Il motivo per cui il nero non deve essere integrale è che quello è il colore degli ebrei. Il nero era anche il colore degli abiti degli abbasidi. Essi lo avevano scelto per distinguersi dagli ommiadi, appartenenti alla dinastia rivale e vestiti di bianco. Il verde, invece, era il colore dei fatimiti. I musulmani avevano preso a prestito il verde, ‘il colore del Puro’, dagli antichi nabatei. Per altri colori ci si ispirava, per esempio, alle tende dei capitani, come avevano fatto i turchi e i tartari, dell’orda bianca o dell’orda nera, per i quali il colore aveva una funzione di riconoscimento.

  L’attartur, raffigurato nelle vecchie stampe, era un turbante di foggia particolare indossato dagli arabi del nord. Nell’Egitto di oggi, questo termine indica un alto copricapo in feltro a pan di zucchero, sfoggiato dai dervisci regolari. Burckhardt, nei proverbi 194 e 398, attribuisce questo alto berretto in feltro o pelliccia alla cavalleria irregolare, detta dely o delaty. A Darfur, l’attartur è un cappello a forma di cono, ornato di perline e cipree, indossato dal buffone, il magannawati, che in Egitto è chiamato halbus o msarah e in Turchia sutari.
  Il litham è il lembo di kefia  fatto passare sotto agli occhi e legato sul lato opposto per coprire la faccia. Oltre che a nascondere - dato che gli occhi non sono riconoscibili -  serve a difendere dal caldo, dal freddo e dalla sete. Credo che il proteggere gli occhi con questo velo, come fanno i beduini, produca una sensazione di freschezza, anche se forse solo apparente, come succede quando si indossa un paio di occhiali scuri.    
  Il milaiah è un pezzo di cotone lungo sei piedi, con disegni a quadri bianchi e blu e con le due estremità di colore rosso. Gli uomini se lo avvolgono attorno al corpo o lo gettano sulle spalle, come un plaid. I suoi colori, ricordano quelli usati dai picti e da altri popoli per dipingersi il corpo. Il milaiah femminile è fatto con due pezzi di cotone o di seta cuciti nel senso della lunghezza e copre anche la testa, come il cappuccio di un mantello. Viene indossato solo fuori casa e, quando una donna è troppo povera per possedere un milaiah o uno habarah, prima di uscire si mette addosso un lenzuolo.  

  Il qina, a differenza del burka, che è una specie di musetta con lo spioncino, è un velo che copre il viso, mentre l’attarhah è un velo da testa. Gli Europei non apprezzano il velo, che rappresenta invece la più civettuola delle trovate, perché permette di nascondere le pelli ruvide, i nasi carnosi, le bocche larghe, i menti sfuggenti, mettendo in evidenza solo gli occhi, neri, liquidi e splendenti. Al contrario, una donna graziosa che voglia mostrare qualcosa di sé, anche con il velo, riuscirà sempre nel suo intento.      
  Il kumm è la manica dell’abito musulmano che, se possibile, è ancora più ampia dei pantaloni. Proprio grazie a queste sue dimensioni, essa è facilmente convertibile in una sacca da viaggio, nella quale depositare piccoli oggetti. Basta tenerne le estremità fra le dita e diventa facile trasportarvi dei pesi, meno fastidioso che portarli appesi in vita. Al tempo della Regina Anna, gli Inglesi portavano dei vestiti con delle tasche nelle maniche, nelle quali mettevano i taccuini di viaggio e altro. Il detto ‘avere un asso nella manica’, per dire di avere un progetto di riserva da svelare al momento opportuno, ha avuto origine da qui.    

  Ho detto prima che il litham è l’angolo del copricapo col quale si copre la parte inferiore del viso. Presso gli attawarik africani, oltre a coprire il viso, esso scende anche sugli occhi e obbliga gli uomini ad alzare il capo per riuscire a vedere. Vi sono uomini che, per proteggersi dal malocchio, non tolgono il litham neanche di notte. I sultani di Darfour, quelli del Bornu e di altri paesi occidentali, si coprivano il viso con una mussola bianca, che creava loro qualche problema quando dovevano sputare.
  Il termine kefiah o kufiah, entrando nelle lingue europee, è diventato cuphia in basso latino; escofia in spagnolo; cuffia o scuffia in italiano; escoffion, coiffe in francese; curch in scozzese; coif in inglese (il tocco bianco portato dai nostri magistrati).    
    
  L’aththaub è una lunga camicia conosciuta in Inghilterra come Tobe. Anche in Egitto, dove è indossata indifferentemente da uomini e da donne, è chiamata in questo modo. Il tawb è un indumento tipico anche dell’Africa centrale musulmana. E’ una lunga camicia da notte di colore giallo sporco, tinta con il cartamo. Non saprei descriverla altrimenti.
  Gli iqsah sono le trecce, i nastri, le piccole monete d’oro e gli ornamenti in genere che le donne di ceto medio-basso si mettono nei capelli. Alcuni Europei, veramente abietti, si impadroniscono di questi oggetti rubandoli alle prostitute. Queste sottrazioni avvengono frequentemente nella Valle del Nilo.  
  Gli antichi Egizi avevano già l’usanza di lasciare una lunga ciocca di capelli sul cranio perfettamente rasato. Ogni paese musulmano ha un modo diverso di portare questo ciuffo di capelli. Per esempio, i Marocchini della regione del Rif, lo fanno crescere su un lato della testa. Ma è un’abitudine riservata ai ragazzi e, con la pubertà, il ricciolo viene tagliato via.
  Gli hadis e la sunna dicono che o si lasciano crescere tutti i capelli allo stesso modo o il cuoio capelluto deve essere completamente rasato. Perciò il shushah, il ricciolo lasciato in cima al capo che serve a tirare su il possessore in paradiso, come se fosse un manico, e l’azzulf, il ricciolo laterale che scende fino alla spalla e che ricorda quello degli ebrei polacchi, sono entrambi bida’ah o makruh, innovazioni. Queste consuetudini, che non sono né halal (perfettamente legittime) né haram (proibite dalla legge), non sono degne di lode. Ai bambini di due o tre anni, rasati per la prima volta, viene lasciata una ciocca sul cocuzzolo della testa e un’altra sulla fronte.

  Se le mie informazioni sono corrette, Abu Hanifah ha scritto un trattato sul shushah, la lunga ciocca che spunta dal nasiyah (il cuoio capelluto) e che rappresenta anche una precauzione, affinché la bocca del musulmano decapitato non sia contaminata da una mano impura. In questo modo, essa assomiglia alla ciocca con la quale i coraggiosi Pellerossa facilitavano la rimozione del proprio scalpo. Forse sono stati i turchi che hanno introdotto questa pratica a Baghdad, dopo averla appresa dai cinesi. I beduini intrecciano la loro ciocca in curun ( corna) o in jadail (boccoli), che disfano soltanto per lavare i capelli. Gli sceriffi  portano lo haffah, un’acconciatura formata da ciocche di capelli arruffati che scendono lateralmente fino alle spalle e che attorno alla fronte e dietro al collo sono lunghe un dito.          
         
 “Barba lunga, idee corte” si dice in Oriente. L’ausagi, l’uomo che ha una barba corta e fine, è considerato un tipo astuto e capace. C’è una vecchia storiella su di un professore che aveva deciso di accorciare la lunga barba bruciandone le punte. Ne ricavò un’ustione che andava dalla faccia agli stivali e che gli ricordò per sempre il proverbio sopracitato. Durante le abluzioni cerimoniali, la barba folta deve essere pettinata accuratamente con le dita, facendo in modo che l’acqua arrivi fino alla radice dei peli. La sunna avverte che la barba non deve superare la lunghezza di una mano più due dita. In Persia il termine uose, dalla barba rada,  è considerato un insulto, in contrapposizione con uose-resi, dalla barba folta. E la barba degli Iraniani, che spesso arriva sino alla cintola, è probabilmente la più bella del mondo. Purtroppo, crea molti problemi, soprattutto in viaggio, perché richiede un apposito sacco in cui sistemarla. Spesso la barba degli arabi è formata da un pizzo spartito al centro e da radi peli sulle guance, che rappresentano una grande mortificazione specie per gli sceicchi e per gli anziani, che le attribuiscono un’importanza religiosa e la considerano un’importante caratteristica della virilità.     

  Durante il festival persiano dell’equinozio di primavera, detto uoseh-nesin (festa dell’uomo dalla barba rada), sfilava per le strade un vecchio con un occhio solo a cavallo di un asino. Egli aveva una cornacchia in una mano e una frusta e un ventaglio nell’altra. Facendosi aria, incitava gli spettatori gridando: “Caldo! Caldo!”
  In Oriente tutti i coloranti per capelli, fra i quali l’henné, le foglie di indaco e le galle, sono di origine vegetale. Herklots fornisce una serie di ricette per la preparazione delle tinte. Anch’io, nel mio Pellegrinaggio(II, 274) ho citato una miscela egiziana formata da una parte di solfato di ferro e di ammonio di ferro e da due parti di noci di galla messe in infusione in otto parti di acqua distillata. Questo preparato ha il vantaggio di essere innocuo, anche se il risultato è abbastanza deludente.
  Il kitabah indica il tatuaggio fatto con gli aghi di fiori, foglie, arabeschi o semplici chiazze di colore blu e verdi, sulle braccia e sul seno delle donne. Indica anche le striature di henné fatte sulle dita, che diventano di un nero brillante dopo l’applicazione di una pasta fatta con miele, calce e sale ammoniaco. Anche Strabone e Galeno alludono a queste decorazioni e possiamo aggiungere che i popoli primitivi non lasciavano alcuna parte del corpo priva di abbellimenti. Si comportavano come gli argentieri indù, che sembrano avere in odio le superfici lisce e fanno sfoggio di tutta la loro arte nel cesellare ogni spazio libero.   
  
  L’abir è una miscela di polveri profumate che si spruzza sul viso, sul corpo e sugli abiti. In India è fatta con fiori di riso, corteccia polverizzata di mango, deodara, legno di sandalo e di aloe, curcuma, petali di rosa, canfora, zibetto e semi di anice.
  Gli Europei non sono abituati ad ornare il corpo e non amano gli anelli al naso. Ma se è vero che l’anello metallico che le donne indù portano alle narici e che sembra messo lì apposta per farci passare le briglie non è bello, è anche vero che una perla a goccia che pende dal setto è bella almeno quanto gli orecchini delle donne europee.   

  L’anello orientale serve anche per apporre i sigilli e quindi è inciso con decorazioni a rilievo. Gli Egiziani, che furono gli inventori dell’arte di disegnare i geroglifici in incavo su degli stampi in legno per segnare i mattoni, applicarono quest’arte anche agli anelli. Nel 1491 a.C., Mosè (Es. XXVIII, 9) prese due pezzi di onice e vi incise i nomi dei figli di Israele. Da qui all’anello con sigillo non vi fu che un passo. Erodoto parla del sigillo di Policrate, fatto da Teodoro in smeraldo montato in oro. Gli Egiziani conoscevano anche l’arte di lavorare il cammeo e il rilievo, come si può vedere nelle incisioni a rilievo e ad incavo del più bello dei loro geroglifici. I Greci presero a prestito da loro la lavorazione del cammeo e la applicarono alle gemme, trasmettendola poi ai Romani.
  Leggiamo in un libro moderno: “Il cammeo è un onice e il cammeo più famoso del mondo è l’onice che raffigura l’apoteosi di Augusto.” Per celebrare il matrimonio si usa l’anello, perché era il sigillo col quale si firmavano gli ordini (Gen. XXXVIII 18 e Ester III 10-12).

   





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